2 Luglio 1993, Mogadiscio, Somalia: operazione “CANGURO 11”

Contributo a cura di Tommaso Colasuonno.

Paracadutista italiano a Mogadiscio.
Paracadutista italiano a Mogadiscio.

Nel 1993 la Somalia era un Paese reduce da ventidue anni di feroce dittatura e dei primi due anni di guerra civile. Il regime di Siad Barre (ex sottufficiale dei carabinieri reali ai tempi del protettorato italiano, poi generale dell’esercito somalo, ed infine dittatore dopo il golpe del 1969) aveva scatenato conflitti sia con Paesi vicini, vale a dire Etiopia, Kenya e Somalia Francese / Gibuti, sia all’interno della Somalia. Un’insurrezione generale nel 1991 convinse il dittatore all’esilio. Una volta venuto meno il comune nemico da combattere le varie forze dell’opposizione non riuscirono a trovare un’intesa su nulla e così si venne a creare uno stato di anarchia militare destinato a perdurare per decenni. In meno di due anni di guerra civile erano morte circa 500.000 persone, per gli scontri a fuoco tra fazioni rivali o per via di una spaventosa carestia che si diffuse nel Paese, e più di un milione di somali dovette fuggire verso gli Stati confinanti. I clan / fazioni avevano proclamato i loro capi “Presidente dei somali”, ma nessuna di queste fazioni aveva il carisma, la forza militare e tantomeno la capacità diplomatica per affermarsi a livello nazionale ed internazionale e riunire la Somalia sotto un governo stabile. Come se non bastasse le varie milizie somale cominciarono a lucrare sullo stato di guerra, ai danni del loro stesso popolo, rubando aiuti internazionali destinati ai civili e favorendo tutta una serie di traffici illeciti, dal contrabbando di armi a quello di esseri umani.


Mohammed
Mohammed Farah Hassan (detto Aidid), uno dei signori della guerra di Mogadiscio.

Le Nazioni Unite, con risoluzione 751 del 1992, approvarono l’invio di una forza militare internazionale sotto bandiera dell’O.N.U. (il comando era affidato agli Stati Uniti). Cominciarono così UNISOM e per gli Stati Uniti e l’Italia rispettivamente l’operazione “RESTORE HOPE” e l’operazione “IBIS”. Una parvenza d’ordine fu ripristinata con l’arrivo dei caschi blu nel dicembre 1992 (ed in particolar modo grazie ai Marines americani e ai paracadutisti italiani), ma nell’estate del 1993 alcune fazioni si ritennero minacciate nel loro potere e decisero di attaccare gli “invasori”; tra i signori della guerra più ostili figurava Mohammed Farah Hassan, detto Aidid (che in somalo significa il Vittorioso), che era stato un funzionario della polizia coloniale italiana durante il periodo dell’A.F.I.S. , ex gerarca del precedente regime ed infine uno dei capi dell’insurrezione generale del 1991. Aidid si considerava presidente del Paese e controllava parte della capitale somala; ma il suo potere era contrastato da un clan rivale, giudato da Ali Mahdi Mohammed, considerato da molti clan somali e dalle Nazioni Unite il legittimo presidente della Somalia. Il clan di Aidid cominciò ad attaccare i caschi blu, dando inizio alla Battaglia di Mogadiscio, per l’Italia la prima dai tempi della Seconda Guerra Mondiale e per gli Stati Uniti la prima dai tempi del Vietnam. L’operazione  cambiò nome in UNISOM II; la missione umanitaria si era trasformata in una caccia al guerrigliero, perché solo arrestando o eliminando i signori della guerra più pericolosi si poteva sperare in un’accordo di pace tra le altre fazioni.


Guerriglieri ripresi nelle strade di Mogadiscio.
Guerriglieri ripresi nelle strade di Mogadiscio.

Molti furono gli scontri e le imboscate che si verificarono durante la battaglia. Ad esempio una pattuglia delle forze speciali australiane cadde in un’imboscata durante un pattugliamento, ma un operatore dello Special Air Service Regiment, che serviva come mitragliere sul mezzo, rispose efficacemente al fuoco, abbattendo tre miliziani e mettendo in fuga gli altri. Queste furono le prime uccisioni confermate del reggimento di forze speciali australiane dai tempi del Vietnam. Tre però furono gli scontri più significativi.



Murales del 183° "Nembo" della Brigata Folgore.
Murales del 183° “Nembo” della Brigata Folgore.

5 giugno 1993, la battaglia della Stazione Radio: un reparto di caschi blu pakistani fu attaccato dalla milizia di Aidid nei pressi si Radio Mogadiscio. 25 soldati furono uccisi brutalmente e i loro 80 compagni si trincerarono nella stazione radio. Intervennero i paracadutisti degli allora Battaglioni “Col Moschin” e del “Tuscania” (a quel tempo, e fino al 2002, anche i carabinieri paracadutisti facevano parte della Brigata Folgore); l’assedio fu spezzato e un massacro di più ampie dimensioni scongiurato dall’intervento dei soldati italiani.


2 luglio 1993, battaglia del Pastificio o del Check Point Pasta: di questo scontro si parlerà ampiamente più avanti.


3 – 4 ottobre 1993, Mercato di Bakara: nell’ambito dell’operazione “GHOTIC SERPENT” agli operatori delle forze speciali e di una compagnia del 3°Battaglione del 75°Ranger Regiment fu affidata la missione di catturare due luogotenenti di Aidid, compito assolto in pieno. Due elicotteri del 160°S.O.A.R. furono però abbattuti con colpi di RPG, quindi la missione si trasformò in un’operazione di salvataggio. Dopo circa quindici ore di battaglia la task force riuscì a sganciarsi. Erano stati uccisi oltre 1.000 somali, quasi tutti miliziani. Gli statunitensi lamentarono 19 caduti, un pilota fu preso in ostaggio, oltre 70 i feriti, più numerosi veicoli distrutti o gravemente danneggiati. Anche due caschi blu malesi furono uccisi durante l’operazione di salvataggio. Un operatore della Delta Force, uscito indenne dallo scontro, perderà la vita due giorni dopo, durante un attacco di mortai alla base USA, ordinato da Aidid come rappresaglia. L’ostaggio, Micheal Durant, fu liberato dopo 11 giorni di prigionia e i corpi di cinque militari americani caduti nelle mani dei somali, dopo essere stati oggetto di azioni che sarebbe troppo poco definire barbare, rimpatriati grazie alla mediazione della Croce Rossa.


Carabinieri Paracadutisti del Tuscania sul tetto dell'ambasciata italiana a Mogadiscio.
Carabinieri Paracadutisti del Tuscania sul tetto dell’ambasciata italiana a Mogadiscio.

Torniamo alla battaglia del Pastificio. Il Contingente Italiano era di base a Balad, un paese a nord della capitale. Pur non avendo voluto costruire caserme all’interno di Mogadiscio, gli italiani avevano creato dei check point lungo la Via Imperiale (realizzata dagli italiani negli anni ’30 per collegare Mogadiscio con Addis Abeba). Erano cinque: Banca, Demonio, Ferro, Obelisco, Pasta (quest’ultimo così chiamato perché sorgeva nei pressi di un pastificio abbandonato della Barilla). I check point costituivano i punti di partenza per i pattugliamenti e per i rastrellamenti volti a sequestrare armi o ad arrestare miliziani / banditi.Il generale Bruno Loi, comandante della Brigata Folgore e del Contingente Italiano in Somalia, affidò ai suoi uomini un incarico delicato. Era stata segnalata la presenza di un grosso deposito di armi e munizioni nel quartiere di Haliwaa, nel nord di Mogadiscio; il quartiere era una roccaforte del clan di Aidid ed era situato in una zona compresa tra i check point Pasta e Ferro. L’operazione avrebbe coinvolto 550 soldati, in prevalenza della Brigata Paracadutisti Folgore (anche gli incursori del Col Moschin, che fino al 2013 facevano parte della Brigata, furono impiegati nel blitz) e dell’8°Reggimento Lancieri di Montebello, più due elicotteri Mangusta e decine di veicoli di vario tipo, soprattutto carri armati M60 e blindati VCC. Sarebbero stati coinvolti anche 400 poliziotti somali in veste di interpreti e supporto. Gli italiani avrebbero operato in due distinti convogli, Raggruppamento Alfa e Bravo; ad ogni raggruppamento, e ovviamente ad ogni squadra impiegata, erano stati affidati precisi obiettivi specifici da perquisire e sorvegliare.


L’operazione “CANGURO 11” scattò alle prime luci dell’alba e si svolse secondo i piani. Furono rinvenute numerose armi e arrestati diversi sospetti miliziani. La tensione però cominciava a salire. I poliziotti somali, che non vollero avere alcun ruolo attivo nell’azione, cominciarono ad allontanarsi in piccoli gruppi. Giunsero sul posto numerose persone, sia civili sia miliziani. Iniziarono lanci di pietre contro i soldati italiani, ma questi si limitarono a lanciare lacrimogeni e, una volta autorizzati dal comando, iniziarono anche a sparare colpi di fucile in aria a scopo intimidarorio. Molti civili scapparono, ma i miliziani stavano prendendo posizione presso il pastificio della Barilla ed altri edifici circostanti. Alle ore 09:00, dopo circa tre / quattro ore dall’inizio del blitz, il generale Loi diede l’ordine di rientro. Il Raggruppamento Bravo era sulla via per la base a Balad quando arrivò un contrordine.


Incursore dell'allora Battaglione "Col Moschin" munito di pistola mitragliatrice H&K MP5.
Incursore dell’allora Battaglione “Col Moschin” munito di pistola mitragliatrice H&K MP5 SD.

Mentre i civili inscenavano una protesta contro i militari italiani, i miliziani di Aidid eressero delle barricate di fortuna e si schierarono nei pressi del pastificio abbandonato e di altri edifici limitrofi. Fecero confluire nella zona una forza di circa 600 miliziani, tra uomini, donne e bambini – soldato; erano equipaggiati con fucili d’assalto AK-47, mitragliatrici leggere e persino RPG e mortai di vario calibro. Il Raggruppamento Alfa si trovò circondato ed impossibilitato a fare fuoco con i carri armati, per evitare un massacro. Al Raggruppamento Bravo fu ordinato di invertire la rotta per prestare soccorso ai commilitoni, ma improvvisamente i militari si trovarono di fronte a barricate, presidiate da miliziani che sparavano come indemoniati. Il generale Loi ordinò che ulteriori forze fossero inviate di rinforzo, per aggirare le barricate erette dai somali; si trattava di blindati e truppe paracadutiste (soprattutto incursori del Col Moschin e parà del Tuscania). Così le truppe italiane complessivamente impegnate nello scontro aumentarono a circa 700 unità.


Un elicottero Mangusta.
Un elicottero Mangusta.

Mentre le forze corazzate attendevano l’autorizzazione all’ingaggio, gli incursori del Col Moschin individuavano e colpivano le posizioni dei mortai e dei cecchini nemici. Correndo rischi elevatissimi, le forze speciali italiane riuscirono nell’intento, contribuendo a ridurre il volume di fuoco delle forze ostili. Fu durante uno di questi attacchi mirati che, alle 09:30 circa, il sergente maggiore Stefano Paolicchi fu colpito da una raffica di AK-47. L’incursore del Col Moschin aveva distrutto una posizione di mortaio con un paio di granate e, benché ferito, gridò con quanto fiato aveva in corpo alla sua squadra “Non pensate a me. Continuate a combattere!”. Il sergente maggiore, in servizio da dieci anni e veterano delle misioni umanitarie in Libano e nel Nord Iraq, spirò qualche ora più tardi in ospedale. Alcuni incursori, successivamente, si dichiararono stupiti per aver subito così poche perdite, perché il volume di fuoco che li accolse era veramente impressionante; la definirono “una grandinata al piombo”.


I rottami del VM90 Iveco, distrutto da un missile TOW esploso da un elicottero Mangusta.
I rottami del VM90 Iveco, distrutto da un missile TOW esploso da un elicottero Mangusta.

Foro di entrata dell' RPG7 contro un VCC italiano.
Foro di entrata della granata esplosa da un RPG-7 contro un VCC italiano.

Nel frattempo il fuoco contro le forze italiane si concentrò su alcuni veicoli VCC. Uno di questi blindati, erano le ore 10:35 circa, fu centrato da un colpo di RPG. Fortunatamente il colpo non esplose, ma penetrò la blindatura del mezzo e ferì gravemente alcuni militari. Il ferito più grave fu il caporale Pasquale Baccaro, ventuno anni e militare di leva, il quale spirò alcune ore dopo in ospedale. Poco dopo una jeep Iveco VM90 munita di mitragliatrice fu abbandonata da alcuni soldati italiani; dei miliziani se ne accorsero e decisero di impadronirene per sparare con la mitragliatrice pesante contro le forze italiane e soprattutto contro gli elicotteri Mangusta che sorvolavano la zona. I piloti chiesero l’autorizzazione all’ingaggio ma il comando tergiversò per diversi minuti. Un elicottero fu colpito e dovette disimpegnarsi per evitare di essere abbattuto. Finalmente giunse l’autorizzazione ed il pilota del secondo Mangusta che sorvolava la zona poté sparare un missile TOW, distruggendo il veicolo ed uccidendone gli occupanti.


Grafico dell'operazione.
Infografica dell’intervento.

Il problema più grave era forzare le barricate ed evacuare i feriti, ma diversi tentativi di far atterrare elicotteri o di far giungere ambulanze fallirono, a causa del fuoco indiscriminato dei somali. Ad un certo punto dei veicoli, facenti parte del Raggruppamento Bravo, riuscirono a rompere le barricate a sud e ad evacuare la maggior parte dei feriti del Raggruppamento Alfa, salvando letteralmente la vita a molti militari. L’azione era guidata da due capocarri, il ventunenne sottotenente Andrea Millevoi dell’8 Reggimento Lancieri di Montebello e dal ventitreenne sottotenente Gianfranco Paglia del 183°Reggimento Paracadutisti della Folgore.


Uno dei militari feriti durante l'operazione.
Uno dei militari feriti durante l’operazione.

Erano circa le 11:30 e la colonna si stava disimpegnando, quando un cecchino uccise vilmente Millevoi, mentre un secondo sparava una raffica di AK-47 contro il sottotenente Paglia, ferendolo gravemente; il militare, come è noto, sopravvisse miracolosamente ma perse l’uso delle gambe, meritando una Medaglia d’Oro al Valor Militare per il coraggio dimostrato sotto il fuoco.


Evacuazione dei feriti tramite elicottero.
Evacuazione dei feriti tramite elicottero.

Poco dopo, anche se tardivamente, il comando si decise ad autorizzare i carri armati Centauro ed altri veicoli a sparare raffiche contro palazzine occupate dai miliziani, sfoltendo i ranghi delle forze attaccanti e ponendo fine al loro ardore combattivo. Col nemico che fuggiva, resosi finalmente conto della potenza di fuoco che gli italiani avrebbero potuto scatenare, il comando diede ordine di evacuare i feriti verso la base di Balad, ed entro le ore 13:00, dopo quattro ore di battaglia, lo scontro poté dirsi concluso. Le truppe italiane decisero altresì di evacuare il ceck point Pasta, convinte che i somali avrebbero potuto riprendere l’attacco e provocare un ulteriore bagno di sangue. Una decisione tutto sommato comprensibile, ma a detta di alcuni militari ed esperti appariva altamente improbalile una simile eventualità, date le pesanti perdite subite dai somali.


MOGADISHU, SOMALIA: An U.N. soldier runs towards a U.N. checkpoint 08 July 1993, near "villa Somalia," the residence of ex-Somali dictator Syad Barre. A U.N. spokesman denied reports 08 July that 2,00 extra U.S. troops had been deployed in Somalia. (Photo credit should read ERIC CABANIS/AFP/Getty Images)
Incursore in azione nel corso degli scontri.

Il bilancio definitivo era di tre soldati italiani caduti in azione (tutti e tre insigniti di Medaglia d’Oro al Valor Militare alla memoria) e di 36 feriti, compresi due carabinieri paracadutisti e una mezza dozzina di lancieri del Montebello. Un gran numero di onoreficienze fu assegnato a molti militari che parteciparono allo scontro. Il bilancio delle vittime somale non fu mai reso noto. Gli stessi miliziani ammisero di aver subito molte perdite in prigionieri, morti e feriti, ma non volevano rivelare il numero; anzi accusarono perfino i militari italiani di aver ucciso decine di civili col loro “fuoco indiscriminato”. I miliziani giustificarono il loro agguato con i media stranieri asserendo che i 400 poliziotti che operarono all’inizio del rastrellamento italiano erano in realtà uomini di Al Mahdi travestiti che cercavano di occupare il territorio del clan rivale; un’accusa veramente patetica, considerando il fatto che quegli uomini erano veri agenti, in secondo luogo non ebbero parte attiva nell’operazione ed infine fuggirono prima ancora che cominciassero gli spari.


Un mezzo del Col Moschin (in primo piano) ripreso durante l'operazione.
Un mezzo del Col Moschin (in primo piano) ripreso durante l’operazione.

 

L'arrivo di uno dei feriti evacuati dal luogo degli socntri.
L’arrivo di uno dei feriti evacuati dal luogo degli scontri.

All’epoca il Ministero degli Interni Somalo parlò di 67 morti e 103 feriti confermati tra i somali; tuttavia lo stesso ministero ammise che le vittime tra i miliziani potevano essere fino a tre volte più numerose. Tre dei miliziani catturati dagli italiani durante “CANGURO 11” accusarono i militari italiani di essere stati torturati, sia per ottenere informazioni sia per puro sadismo; naturalmente i media italiani, che domandavano un ritiro immediato del Contingente Italiano dalla Somalia, enfatizzarono la cosa. Non mancarono giornalisti che, senza avere alcuna prova, accusarono i militari italiani di aver lanciato un operazione volta a catturare lo stesso Aidid; il tutto per bollare l’intervento italiano in Somalia come colonialista.


Si attende ai feriti.
Si attende ai feriti.

Mentre in Italia politici e giornalisti dimostravano la loro già nota capacità di intromettersi in una crisi internazionale per poi gettare la spugna alla prima difficoltà, a Mogadiscio l’intelligence militare si infiltrò nelle roccaforti di Aidid. Emerse che alcuni luogotenenti di Aidid erano inferociti col loro stesso comandante. Aidid si trovava in una casa vicina al deposito di armi scoperto dagli italiani ed era convinto che il vero scopo dell’operazione fosse la sua eliminazione fisica, per questo ordinò alle sue forze di attaccare. Per quanto fossero fedeli al loro leader, molti capi della milizia aprirono gli occhi e si resero conto di essere stati usati da Aidid per corpirgli la ritirata. Decine di persone tra uomini, donne, bambini, civili e combattenti erano stati messi in pericolo e molti erano effettivamente stati uccisi o feriti per l’egoismo di un vecchio, un’individuo spregevole e avido di potere. L’intelligence militare riuscì a trovare un intesa con questi capi per allontanare elementi facinorosi dalla zona, permettendo la riconquista del check point Pasta il 9 luglio 1993, senza che si sparasse un solo colpo. Se gli italiani, come chiedeva il comando americano, avessero immediatamente cercato di riconquistare Pasta con la forza i miliziani avrebbero sicuramente messo da parte i dissidi interni per affrontare una nuova battaglia, facendo una seconda strage.


Mesi dopo, in seguito al raid statunitense a Bakara, Stati Uniti, Italia e gli altri Paesi della Coalizione decisero di ritirarsi dalla Somalia entro il 1994. Aidid non riuscì ad affermarsi come presidente. Il 1°agosto 1996 rimarrà ucciso in un conflitto a fuoco con i miliziani del clan di Al Mahdi. La cosa ironica fu che il figlio di Aidid sceglierà poi di emigrare proprio negli Stati Uniti e servirà perfino qualche anno nel Corpo dei Marines. Al Mahdi si “dimise” da presidente, ritirandosi a vita privata in un villaggio fuori da Mogadiscio.


A Gianfranco Paglia, che dimostrò coraggio e sangue freddo in battaglia e una grandissima determinazione anche successivamente, fu concesso di rimanere nella Brigata Paracadutisti Folgore, essendo divenuto per molti una specie di leggenda vivente; attualmente (2015) ricopre il grado di tenente colonnello. È stato parlamentare tra il 2008 ed il 2013 ed ha ricoperto il ruolo di consulente per il Ministero della Difesa.


Gianfranco Paglia e' ancora in servizio nella Brigata Folgore.
Gianfranco Paglia e’ ancora in servizio nelle forze armate con il grado di Tenente Colonnello.

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